Sull’invasione di San Berillo

Sono arrivati all’alba, come ci avevano già abituati molte volte in questi anni. Un’operazione spettacolare, “interforze” l’hanno chiamata; c’erano tutti, polizia, carabinieri, nas, ris, ros, finanza, nettezza urbana; hanno bloccato l’intero quartiere, coadiuvati da un elicottero. Hanno iniziato a sfondare porte, entrare nelle case, chiedere documenti, minacciare, cercare droga, armi e chissà quali altri oggetti delle loro fantasie erotiche. Hanno distrutto con le ruspe tutti i bar autocostruiti che in questi anni hanno animato il quartiere; poi si sono messi a murare il rudere al centro del quartiere, intorno al quale erano stati costruiti i bar. È arrivato il sindaco Trantino a dire “l’illegalità non ha campo libero” e facendo menzione ad alcune, secondo lui, buone forme di integrazione presenti in quartiere. Ci ritorniamo tra poco, ma andiamo con ordine.
Dalle prime notizie, sembrerebbe che gli eroi della legalità non abbiano trovato altro che pericolosissime scarpe contraffatte (nei video pubblicati dall’organo di regime questurino CataniaToday si possono osservare molti colleghi che indicano scarpe, pensando a quanti regali potranno fare a natale), un po’ di droga (chi l’avrebbe mai detto), e, soprattutto, un sacco di monnezza (come se nel resto nella città non ci fosse). Insomma, poca cosa. Tre domande emergono allora: cosa vogliono veramente? Perché proprio ora? Perché questa spettacolarizzata militarizzazione?

La massiccia operazione interforze e i proclami alla riqualificazione di San Berillo, alla legalità e allo spazio che questa operazione lascerebbe alle “esperienze sane” sono infrastrutture – materiali e simboliche – del processo di gentrificazione e turistificazione del quartiere. Sono anni, andrebbe detto decenni, più di mezzo secolo, che se ne parla e si va avanti sgombero e demolizione dopo sgombero e demolizione. Il Pnrr è solo l’ultimo passaggio in questa direzione. L’operazione di ieri è quindi nient’altro che un’espulsione di massa della popolazione razzializzata e criminalizzata che vive e anima il quartiere. Chi vive e anima il quartiere tornerà, certamente. Ma aver distrutto i bar e tutta una serie di investimenti fatti per rendere il quartiere un luogo di socialità e aggregazione fa sì che ora la precarizzazione delle vite sarà ancora più alta. La retata Che hanno continuato a fare fino a notte inoltrata ha messo in pericolo le vite. E ha finito per deportare affetti, spedire tre persone al CPR, un posto peggiore del carcere. I guardiani dell’ordine non son i soli a far questo lavoro da infami. C’è l’operato  anche Di (O forse, come hanno già fatto in questi anni, useranno) chi, secondo loro, “ha il diritto di restare”: l’interesse privato e quello privato-sociale. Trame di quartiere su tutti, i cui antropologi e che vogliono rendere questo un quartiere “migliore” hanno osservato braccia conserte lo sgombero di ieri. Vorremmo ricordare che anche il lasciare fare è una forma di partecipazione. Sarà che in fondo in quelle quattro vie dove c’erano i bar autogestiti loro vogliono mettere i tavolini del loro bar “sociale”? Serve che il quartiere mantenga una facciata di incontro tra popoli e culture, ma deve essere monetizzabile, quindi ordinata, controllata, sorvegliata ma con il sorriso. 
Sulle tempistiche di questa operazione ci sono almeno tre elementi che stanno insieme. La direzione nazionale del governo, che non vuole che luoghi di socialità autogestita (per loro “il degrado”) e riproduzione sociale degli oppressi possano esistere, si aggiunge alle rinnovate paranoie indotte e autogiustificanti sui lupi solitari del terrorismo internazionale. I già citati interessi gentrificatori legati a Pnrr e altre spese. I miti e le leggende che si sono sparsi in queste ultime settimane su famiglie disperate che sono andate a recuperare i loro figlioli dipendenti dal crack in quartiere. Possibile, per carità. Sicuramente l’utilissima risposta muscolare risolverà il problema. O forse, ancora una volta, queste sono solo costruzioni mediatico-istituzionali per giustificare l’invasione, lo sgombero, la distruzione. Retoriche molto simili a quelle che vediamo su scala internazionale in questi giorni a Gaza. La stessa, identica, per restare in terre siciliane, che abbiamo visto a maggio di quest’anno durante lo sgombero del ghetto di Campobello di Mazara, guarda caso anche quello abitato da comunità gambiane, senegalesi, di sex workers, illegalizzate, criminalizzate. Anche il quel caso, direzioni direttive?  nazionali tradotte in narrative locali su legalità e insediamenti informali hanno trovato adito nei miti e leggende su sequestri di giovani ragazzi locali pieni di debiti perché non pagavano il crack. Costruzioni mediatiche che giustificano l’invasione. Tutti tossici, tutti terroristi, tutti pericolosi. 
In ultimo, prendiamo atto della ingente massa informe di sbirri che hanno invaso il quartiere. Con questi numeri, non si può che averla vinta in poco tempo. Ma guai a noi a credere che questo sia il simbolo dell’incapacità di resistere e autodifendersi di chi quel quartiere lo abita. Se sono venuti con gli elicotteri, con un’operazione interforze, se l’hanno spettacolarizzata permettendo al sindaco la passerella sulle macerie, è perché San Berillo, per anni, è stata per loro luogo temuto, luogo in cui si potevano permettere incursioni e arresti lampo, ma dove operazioni infami come le botte degli sbirri alle sex worker del 2021 hanno visto la risposta del quartiere, le loro gazzelle scappare dopo il misfatto, presidi spontanei sotto i luoghi del potere. A San Berillo o entravano in tanti, incattiviti, muscolosi, prendendosela in dieci contro uno, e comunque concludendo spesso poco, oppure si dovevano adattare alla negoziazione. Nelle strette vie, tra le case abbandonate, porte che si aprono e si chiudono, finestre invisibili ai loro occhi (tant’è che hanno dovuto riempire il quartiere di telecamere di ultimissima generazione), sostegno reciproco, pratiche di autogestione del conflitto interno, loro, gli sbirri, hanno sempre fatto fatica. 
Una forza fragile, quella di questo quartiere, come le sono quelle di tante popolazioni – grandi o piccole – colonizzate, imprigionate. Una forza da saper riconoscere nella quotidiana precarietà, vulnerabilità, anche debolezza, imposta dal nemico, in questo caso dallo stato, dalle sue leggi e dalla sua repressione. Una forza da sostenere e difendere. Non finisce qui.