Note su carcere e repressione. Per lə nostrə amicə incarceratə. Di Stato non si può morire.

A Koleyewon
A Jamar
A Sekka
Ad Alfredo

 

C’è un filo conduttore che lega tutto ciò che ha a che fare con il carcere: la confusione. Da fuori, non si capisce mai con chiarezza cosa stia succedendo dentro, come lə nostrə amicə ci siano finitə, se siano vivə o mortə

L’accusa contro Koleyewon è chiara, lampante, non ammette controprove: “tratta di esseri umani con finalità di sfruttamento della prostituzione”. Eppure lui si dichiara innocente, la condanna ha come unica prova centinaia di pagine di intercettazioni telefoniche che quando proviamo a leggere non capiamo. Non sembra esserci nulla di così evidente che possa portare ad una condanna definitiva di oltre sette anni di carcere. È un terreno scivoloso, l’accusa è di quelle che in altri contesti ci farebbero dire che noi con questa persona non vogliamo averci nulla a che fare. Eppure, Koleyewon è un nostro amico, ovvero compagno, e in questi anni si è preso cura di moltə di noi, dentro e fuori le lotte. Di fronte ad un sistema che cerca costantemente i capri espiatori per pulirsi la coscienza e riprodurre la dicotomia tra il bene e il male, vittima e carnefice, in cui il capro espiatorio carnefice di tutti i mali è quasi sempre una persona povera e razzializzata, diventa difficile riuscire ad avere chiaro ciò che è giusto e che è sbagliato. Koleyewon è stato accusato di essersi pagato il viaggio attraverso il Sahara e il Mediterraneo lavorando come intermediario  tra la “vittima” e il sistema di sfruttamento. Koleyewon è allo stesso tempo vittima non riconosciuta del sistema di frontiera e, secondo l’accusa, carnefice di una violenza su una donna, più esposta di lui alla violenza della frontiera. Poco importa se poi questa donna non ha mai individuato in Koleyewon un suo carnefice. Le parole delle “vittime” di fronte alla legge contano ben poco, quando sono i progetti accusatori di procuratori a dover essere difesi.  Quando è una ragione di stato razzista e xenofoba a dover essere difesa. Quando chi impaurisce le “vittime” sono le istituzioni statali, come per le donne nigeriane stesse, chiamate a prendere posto sull’altare del tribunale in cambio di un maledetto permesso di soggiorno e, quando non più utili all’ingranaggio della criminalizzazione, criminalizzate a loro volta e strappate via dai loro figli. 

Ci chiediamo, spesso, fino a che punto certe azioni sono legittime in un contesto di violenza? 

Ad esempio, ci chiediamo, è giusto rubare? Noi pensiamo di sì, soprattutto se si è impoveriti da un sistema capitalista e razzista. Jamar e Sekka stavano facendo questo, un pomeriggio di ottobre a Torino. A dirla tutta, l’idea sembra essere  stata di Jamar, un nostro amico dai tempi di Catania. Entrare in un negozio cinese per rubare un paio di cuffie. La titolare ha chiamato la polizia, arrivata celermente. C’è chi dice che Sekka si sarebbe messo in mezzo per provare a far scappare Jamar, senza riuscirci. Oltre che del furto, sarebbero stati accusati anche di resistenza a pubblico ufficiale. Provare a resistere è ormai un atto criminalizzato a qualsiasi livello, ma ancora di più quando sei già nelle mani delle forze dell’ordine. 

D’altronde, ogni volta ci ripetono che dovremmo sentirci al sicuro quando siamo nelle mani delle istituzioni, ammanettatə dalla polizia ci si deve sentire proprio al sicuro, sbattutə in cella in custodia cautelare deve essere un’altra sensazione che lascia tranquillə e indifferentə. Ed è così che si è sentito Sekka, dopo che il giudice per le indagini preliminari ha convalidato il suo arresto (a differenza di quanto hanno scritto i giornali): insicuro. 

Non sappiamo quali fossero le turbolenze e le convinzioni interiori di Sekka, sappiamo però che la mattina dopo che è stato convalidato il suo arresto si è impiccato dentro la cella in cui stava. È morto, è stato suicidato. Su questi fatti è stata aperta un’indagine contro ignoti, ma anche di questo i giornali non hanno parlato, raccontando invece la storia del povero immigrato sfortunato, che non aveva capito che l’avrebbero rilasciato, insomma una storia in cui la colpa (dal furto alla morte) è tutta spostata su Sekka. E anche chi poi ha parlato dei problemi del carcere di Torino, lo ha fatto citando costi e sprechi economici. 

La storia di Sekka è stata anche la nostra perché per tre giorni abbiamo creduto che a suicidarsi fosse invece stato Jamar, a conferma che da dietro le mura del carcere le informazioni escono in maniera per nulla chiara, permettendo così che vengano manipolate, lasciando intere comunità (familiari o amicali) in un limbo di attesa mortifero. Jamar è stato sepolto, ed è poi resuscitato, al punto che abbiamo festeggiato rumorosamente quando, dopo esserci precipitatə a Torino, in un freddo pomeriggio di inizio novembre abbiamo ricevuto la notizia che era invece vivo, in carcere, ma vivo. Le parole dell’avvocato che ce lo comunicavano “ho una buona notizia per voi, Jamar è in carcere” rivelano il cortocircuito emotivo e politico in cui siamo immersə. È vivo e in carcere. Come siamo arrivatə a sentire che sia davvero una buona notizia che sia in carcere? Che sia vivo in carcere? Quanto tempo si può restare vivə in carcere? Un luogo che ti costringe a sentire la gioia per la vita ritrovata di uno proprio quando è il tempo del lutto per un’altra vita persa.

Come tenere insieme il dolore per Sekka con la gioia per Jamar? Continuando a non perdere la rabbia e a rendere politici i nostri legami.  Anche perchė non possiamo fare altrimenti. A Catania hanno festeggiato la resurrezione così: il 4 novembre, ma quale giornata delle forze armate, il 4 novembre d’ora in poi è il Jamar day. A Torino, eravamo con Cham J., un attivista migrante della città che per provare a dare un nome e un volto a chi si era tolto la vita in carcere si è speso molto. Era il più contento di tutti Cham J., non poteva sopportare l’idea che due suoi fratelli fossero morti nella stessa settimana. 

Mentre ci raccontava della sua vita e delle storie dei gruppi politici di cui ha fatto parte, noi gli dicevamo che sarebbe dovuto venire a Catania a parlare con chi vive lì e dar forza nel provare a cambiare le cose. Abbiamo parlato del suo e del nostro rapporto con la legge, e Cham J. l’ha declinato in un modo importante,  “I respect the law, but people in need first”: io non ho paura della legge se quello che sto facendo lo sto facendo per sostenere chi ha bisogno. 

E allora non crediamo che la legge che manda in carcere Sekka e Jamar, che è la stessa che mette in pericolo le loro vite lasciandoli in attesa di un documento per anni, rinchiudibili e deportabili, sia una legge rispettabile. 

Prendendo le parole di Chandra Candiani, una volta che si inizia a seguire “l’energia dell’errore” questa “fa paura, ci si sente soli ed estranei, le lusinghe del mondo non attraggono più e annoiano, sembrano vecchi giocattoli rotti, ci si sente inutili e molto sciocchi. Il re è nudo. Non si può tornare a vestirlo. Il guscio è vuoto. Non si può abitarlo di nuovo. Cosa resta? Il richiamo dell’errare, ogni respiro contiene un invito: vieni e vedi”.

Ogni giorno che passa, non possiamo far altro che stare dalla parte di chi erra, nel doppio senso di provarci e sbagliare (secondo la legge). Forse perché anche noi proviamo ed erriamo, venendo raggiuntə dalla repressione dello stato e delle sue leggi e rischiando di sentircene vittime. Forse perché, da questa prospettiva, si acquisisce un potere quasi magico, non individuale ma collettivo: vedere quello che la maggior parte delle persone non vedono. 

A Torino, alle Vallette, pochi giorni dopo la morte di Sekka, è iniziata una rivolta da parte dei detenuti per richiedere maggiore assistenza sanitaria. Non una richiesta a caso, ma una necessità strettamente collegata alla morte di Sekka e delle altre 78 persone morte in carcere in Italia nel solo (!!) 2022. La rivolta, una forma di resistenza dentro una situazione di reclusione, è stata sedata da polizia in assetto antisommossa e idranti. Ritorniamo sempre lì, che spazi ci sono per difendersi?

È quello che ci chiediamo, e che, finalmente, con ritardo assassino, inizia a chiedersi anche un piccolo pezzo della società civile, rispetto a quanto sta succedendo ad Alfredo Cospito. Un militante anarchico, condannato all’ergastolo ostativo in regime di 41-bis, che da da oltre quaranta giorni ha iniziato uno sciopero della fame e della sete nel carcere di Sassari, dove lo stato Italiano lo sta torturando. Senza contatti con l’esterno, senza possibilità di scrivere a qualcunə, senza libri, senza aria, senza vita, a vita. Alfredo Cospito, accusato di strage politica per due ordigni esplosivi in una scuola allievi dei carabinieri che non hanno né ucciso né ferito nessuno, sta usando il suo corpo come ultima arma di resistenza a un sistema che non permette né il dissenso né, tantomeno e sempre di più, di provare a resistere alla sua propria violenza. Come a Bobby Sands e moltə altrə, nonchė ad Anna che l’ha raggiunto nello sciopero della fame, ad Alfredo non resta che il proprio corpo, indebolito di giorno in giorno, spinto verso morte lenta, per combattere una battaglia che ha valore per tuttə noi. 

Non possiamo lasciarci annichilire.

Non possiamo lasciarlə morire.