Martedì 26 e mercoledì 27 ottobre, la provincia di Catania è stata investita da un ciclone che ha devastato il centro urbano della città e anche le zone – urbane e agricole – circostanti. Sui giornali e in televisione, però, solo a partire da giovedì, si è vista per le strade e nei cieli anche la risposta istituzionale ed emergenziale. In centro città, una decina di veicoli dei vigili del fuoco sono stati schierati in piazza Teatro Massimo con tanto di gommone. Erano lì per “prevenire” eventuali danni, ma il danno era già stato fatto: due giorni di piogge torrenziali che le istituzioni hanno scelto di non gestire, esponendo la popolazione ai danni fisici del ciclone Apollo e, allo stesso tempo, scaricando la gestione del rischio climatico su singol* cittadin*, che hanno dovuto arrangiarsi con i mezzi a disposizione, per chi aveva mezzi.
E qui arriviamo al punto centrale del problema dal nostro punto di vista (non che gli altri siano meno importanti, anzi; ma vogliamo contestualizzare i giorni dell’emergenza all’interno della nostra prospettiva anti-razzista e focalizzata sulla condizione abitativa nel quartiere di San Berillo). L’emergenza climatica, così come il virus del Covid-19, non può essere analizzata come un semplice fatto tecnico, né come esterno dalla realtà sociale che l’ha prodotta. Il disastro di Catania è una delle ennesime sindemie del nostro tempo, a significare che i problemi ambientali, o sanitari, hanno un impatto maggiore sulle fasce della popolazione più svantaggiate. In un’intervista rilasciata qualche giorno fa, il geografo dell’Università di Catania Salvo Torre ha ribadito come la distribuzione dei danni del surriscaldamento globale si avverte ormai anche nelle aree ricche del mondo (e l’Italia è una di queste), ma si mantiene sempre lo stesso schema, ossia quello della moltiplicazione dei margini sociali: le comunità e le persone marginalizzate – per questioni di classe, genere o stato di cittadinanza – sono anche quelle più esposte ai danni dei fenomeni estremi (così come sono più esposte ad altre violenze estreme, come le aggressioni della polizia, l’impossibilità di avere accesso ad abitazioni e a servizi essenziali).
È in questo contesto che l’emergenza climatica si è intersecata con l’emergenza abitativa in pieno centro a Catania, tra piazza della Repubblica e lo storico quartiere di San Berillo, da decenni periferie urbane dentro il cuore della città, e per questo narrate come un “buco nero” e mira di progetti di riqualificazione e arredo urbano. C’è però un terza linea che si interseca all’emergenza climatica e abitativa – oltre chiaramente a quella sanitaria legata ai rifiuti -, ed è quella della razzializzazione. Sono persone perlopiù straniere, senza documenti o da anni in attesa di un pezzo di carta a certificare di essere degne di questo paese, ad essere travolte dalle piogge torrenziali e dal rischio di crolli all’interno del quartiere. San Berillo, però, è un quartiere meticcio ormai da decenni e, nonostante la violenza del razzismo istituzionale che rende le vite delle persone straniere precarie ed ancora più esposte, esperienze di auto-organizzazione e resistenza non hanno mai smesso di esistere, facendo di San Berillo un quartiere per qualsiasi persona straniera arrivi a Catania: un nodo di una rete di solidarietà e auto-organizzazione transnazionale che va dall’Africa Centrale fino al nord Europa. Un quartiere africano, un quartiere latino, un quartiere est europeo, bengalese, un quartiere catanese che, all’interno delle proprie gerarchie e del proprio linguaggio, è un quartiere rifugio per chi arriva. È dentro alcune di queste esperienze di autogestione che chi si è trovato in mezzo alla tempesta ha trovato solidarietà, un tetto sotto cui stare, ospitalità.
Come già detto, il quartiere sta vedendo in questi mesi un grosso aumento della pressione speculativa e gentrificatrice, con l’apertura di bar chic e locali a misura di turista ai margini e dentro il cuore del quartiere, con l’abbattimento di palazzi storici e la riconversione ad altri a spazi chiusi o inaccessibili per chi questo quartiere lo vive tutti i giorni, abitandoci. Ci sono realtà, chiuse e silenti durante l’emergenza, che, sostenendo e accelerando l’abbellimento del quartiere, favoriranno l’espulsione degli attuali abitanti. Solidali con le persone esposte all’ondata alluvionale sono state invece le comunità che abitano San Berillo e gli spazi e le associazioni che da anni vivono il quartiere, sostenendolo con strumenti pratici – sportelli sociali e legali – e di aggregazione sociale. San Berillo è un quartiere che va prima di tutto rispettato, va rispettata l’autonomia di chi lo abita e dei punti di aggregazione sociali che già esistono, nonché l’ampia rete di sostegno e scambio reciproco che qui esiste. Se non si capisce questo, se si crede che San Berillo sia un quartiere da salvare o da riqualificare, e che siano i e le bianche a dover portar avanti questo processo, non si farà altro che favorire l’acuirsi della sindemia in cui già viviamo. Il lavoro sociale e politico deve essere un lavoro con e per chi questo quartiere lo abita.
Le scelte sul presente e sul futuro di questo quartiere non possono essere prese senza ascoltare e coinvolgere nei processi gli e le abitanti del quartiere. Lo stesso vale per tutti i quartieri di Catania perché, come dice giustamente Salvo Torre, i territori sono il risultato delle pratiche sociali. Le multiple emergenze a cui abbiamo assistito e contro cui abbiamo provato a resistere in questi giorni sono il risultato di un governo della città e del territorio che utilizza l’abbandono e la speculazione come strategia di governo, credendoci inerm* e silent*. Noi invece ci opponiamo, e resistiamo.